Non c’è un tempo per scrivere, scrivere è il tempo. E non c’è neppure un luogo, scrivere è il luogo. Si delineano percorsi che sono reti dalla terra al cielo e dal cielo alla terra, le parole diramano, e un nuovo mondo, nel mondo, si crea. Dal silenzio, l’inesprimibile, l’invisibile si avverano.
Scrivendo qualcosa di noi muore per non morire mai più. E qualcosa di noi nasce, per nascere ancora. Si scrive in un luogo e in un tempo (un non luogo, un non tempo) dove non esiste separazione.
Bruciare ponti dopo averli costruiti, sovvertire regole dopo averle imparate (o inventate), distruggere pilastri dopo averli eretti.
Ritrovarsi e riconoscersi, appena nati e appena morti, tra milioni di specchi, nell’attesa che qualcosa si riveli per poi velarsi ancora e ancora, e lasciare sul bianco quei barlumi e quei barbagli, perché la domanda non smetta di domandare.
Infinitamente altro ancora è scrivere. E se quando si scrive tutto ciò non accade, forse dovremmo ricominciare.